Recensioni complete

In una mostra solitamente siamo abituati a guardare in modo veloce, istantaneo le opere esposte ma questa sera possiamo conoscere nel modo migliore le opere di Patrizia Rota, avere il tempo per guardarle, coglierle e capirne il significato attraverso un ragionamento più complesso. Sovente siamo abituati ad avere difficoltà nel cogliere l’arte contemporanea, in queste opere invece, è più semplice: la strada scelta dall’artista , è la tradizione dell’arte che si ripete nel tempo, il genere della natura morta interpretata da Patrizia non è lontana o contraria a quella del’600. La tecnica è sempre la medesima, cambia la personale interpretazione della pittrice che è diversa: uno studio meticoloso, direi faticoso nel lento progredire dell’opera. Alcuni quadri presentano una rielaborazione più classica: un panneggio, dei frutti,come in altri successivi con modalità simili. Nelle opere più recenti, assistiamo a un progredire di soluzioni che ci immergono in una luce che avvolge la natura morta in una sua naturalità: quando il fondo comincia a fare parte integrante di una certa atmosfera, non più funzionale al soggetto, si avverte una maturazione nella ricerca dell’artista e un distacco dalla tradizione con una risoluzione più moderna. Possiamo pensare che siano soggetti apparentemente semplici ma per arrivare alla composizione Patrizia, ha affinato una sensibilità, uno studio sacrificando anni di lavoro, superando non poche difficoltà; le opere dell’artista non esprimo genericamente “la gioia di vivere” ma una ricerca attenta per migliorare le proprie conoscenze. Patrizia Rota approda a questa ricerca dopo una feconda produzione (oggi abbandonata) del paesaggio. In questo contesto è presente un’opera rappresentante quel periodo: una strada, dell’acqua e delle piante e, generalmente quello che fa parte del suo elaborato pittorico evidenzia la mancanza di presenza umana: non vi è mai una presenza significativa anche nel momento che va a riprodurre la natura; è sempre una ricerca attenta alle luci, una precisa analisi della naturalità. Nella maggior parte dei suoi paesaggi la “parte botanica” è quasi esclusiva, più di paesaggi parlerei di tonalità perché il verde è la parte preponderante nelle sue varie espressioni. Ogni opera precede una costante riflessione, queste di oggi, hanno un titolo, apparentemente complesso rispetto al tema del quadro, nel caso “Risveglio di fine inverno” la tonalità intimistica chiara del fiore convive con soggetti ancora slegati tra loro:a lato una tazza sopravvive a qualcosa che sta nascendo. Ultimamente l’artista ha affrontato lo studio dell’acquarello, presente con tre opere a completare la ricerca. L’acquarello, porta a una tecnica più decisa, immediata perché non si può rivedere e obbliga a una velocità di esecuzione che non è nelle corde di Patrizia ,più incline, come si può notare nei dipinti qui esposti, ad una soluzione continua della distribuzione del colore, affrontando ogni volta una salita faticosa per la realizzazione di un quadro. Gli acquarelli ambientati sul lago di Garda sono la tradizione dei nostri artisti locali che spesso hanno visitato il luogo con una sintesi legata alla mutevolezza di un giorno, alle variabili cromatiche che è una sfida per chi dipinge.Patrizia, magari di nascosto, ha praticato questa strada, i lavori esposti presentano giochi di luce e colore del lago, affrontati in maniera molto interessante per lo sforzo che fa di allontanarsi dalla sua pittura di oggi e precedente: un momento di tempesta con nuvole, onde, dove si vedono accenni indefiniti diversi dal suo modo interpretativo, ragionato, definito, una nuova strada per scoprire sotto nuove maschere altre sensazioni e riscoprire inaspettate emozioni.
Settembre 2013 Nicola Boletti

Guarda. Senti il profumo che hanno queste rose d’aiuola recise di fresco. Senza toccare, ti guidi la luce, tra le pieghe dove s’espandono toni d’ombra, a sfiorarne il velluto dei petali. Osserva. Cogli il sapore del grappolo. E’ luce, di nuovo, il nettare che riempie la levigata pienezza degli acini. Non ne vorresti uno? Sorridi. Colore bagnato di luce. E’ nella luce, ancora una volta la luce, il respiro delle nature morte di Patrizia Rota. Luce d’interno, luce di studio, luce d’artificio. Una finestra si spalanca. Una persiana resta socchiusa. Un faretto irradia da oriente, spotlights annullano dall’alto ogni riflesso. L’artista è un mago e ogni dipinto è una favola, un incantesimo, un miraggio. Qualcosa, d’un tratto, è apparso ai suoi occhi nudo dal senso dato dall’uso, da ogni specifica qualità, dal nome e degno in sé d’esser raffigurato, di raffigurare. Lo stesso stupore viene offerto allo sguardo di chi osserva da una pittura spinta di là dal naturalismo, la quale adotta l’iperrealtà dell’immagine quale cifra stilistica distintiva, che conduce il dipinto sul piano della rappresentazione metafisica. Ritratta dal vero, la composizione nasce in studio e si sviluppa attraverso una ricerca “a scandaglio”, non tanto degli oggetti, quanto della loro posizione, delle prospettive, della luminosità, dei colori, nella tensione a trovare un ritmo tra gli elementi, l’accordo di forme e cromie che suoni con la fluidità di un verso. Prima il rigore del disegno, quindi il colore, la libertà del sentire, infine la luce regina, il contrappunto dei timbri, la morbidezza di sfumature tonali, che procede passo passo, nei giorni, nei mesi. Il lavoro avanza nel labor limae di pennelli da miniatore, in cui l’olio si leviga sulla tela. Seguendo il canone, Patrizia Rota cerca il dialogo e la continuità con la tradizione del genere, la interroga, indaga l’aspetto di soggetti familiari, quell’aria d’abitudine, quella tenerezza radicata nella quotidianità. Fiori. Ortaggi. Frutta. Utensili di cucina. Sulle bucce, dagli incavi, giunge il chiaroscuro, i corpi posano sulle ombre, la declinazione tonale scava il profilo di ogni elemento dipinto, ne cattura i dettagli, li trae in tridimensione da sfondi che di quadro in quadro perdono prospettiva, divengono più rarefatti, sempre meno connotati, atmosfere ideali. Metafisica, si è detto, già. Si è osata questa parola non perché l’immagine in genere sia priva di un legame proprio con la realtà, anzi. Il senso di mistero, l’enigma che emana dalla stasi di queste figure, straniere, a ben vedere, in qualsiasi contesto, sottratte al divenire, le muta però in allegorie. Il passaggio dalla dimensione reale a quella ideale è appunto evidente nella progressiva assenza di connotazione dello sfondo. Diviso in due da una bicromia in contrasto, che negli ultimi lavori spesso è sostituita da impercettibili variazioni di un’unica tonalità, lo spazio si svuota di concreti piani d’appoggio, sezioni di mensole, spigoli di tavoli, fino a eliminare dalla scena fruttiere, scodelle, panneggi di drappi, per privilegiare la sospensione di corpi naturali in una dimensione autonoma dalla realtà. Nel nitore dei contorni, nelle proporzioni delle figure, è la bellezza della materia, delle sue forme, quell’armonia senza ragioni da se stessa esterne, a essere approfondita nel quadro. S’affaccia, però, l’intimità dell’uso, il ciclo delle stagioni, il trascorrere dei giorni, il quotidiano vuotare, o non vuotare, un bicchiere. A mostrarsi, è la coscienza dell’artista e, con essa, quella di chi osserva, che s’impiglia agli oggetti, se ne dimentica, ora li afferra, ora li perde. La natura morta di Patrizia Rota, perciò, è anche inquadratura del vissuto, istantanea di riflessioni sul mondo, sugli uomini, racconto, dettaglio d’idea, di qualche sentire da conservare intatto, da strappare alla corruzione degli eventi.Può darsi, infine, sia questa la ragione per cui dall’opera sembra bandita la forza del caos, la metamorfosi. Se ne intuisce l’agguato, in un rosso che s’incupisce, in un rosa impallidito al confine dell’evanescenza. E’ però tenuta a bada. Qui la materia matura senza corrompersi. Anche l’ortensia, ormai disidratata, pur avendo perduto il colore della fioritura, indossa una veste che appare come d’argento: intatta è la figura, l’aspetto è regale. Domina il cosmo, l’aspirazione all’ordine, al controllo. Nell’acqua che specchia la finestra e l’al di là dal vetro, traspare l’umana cura nell’avversare l’aleatorio, sorride nel progettare l’istante, nel programmare l’illusione d’uno scacco alla morte
Agosto 2011 ELENA CARREA

Boschi visitati nella loro terrena meraviglia, acque celate tra le foglie o ritratte nel mistero del loro fluire e, successivamente ,chiome arboree più sfumate e diafane e il rosso autunnale, esasperato e quasi trasparente nell’ultima rappresentazione prima della morte invernale. Una pittura paesaggistica che sembrava accentuare nel tempo una ricerca metafisica: questo, fino ad un certo punto, il percorso di Patrizia Rota. Ma ecco irrompere nella sua pittura la luce vivida delle nature morte. Mai aggettivo si è rivelato tanto inadeguato a rappresentare i cachi deposti sull’umile mensola di legno (“Diospiros”): pieni e carnosi catturano la luce e essi stessi la emanano, come se emergessero dallo sfondo per sedurci a gustare nella polpa scivolosa e zuccherina la vita profonda dell’inverno. Ritorna con essi l’infanzia al tavolo di cucina, la percezione delle gioie tangibili, tattili: la superficie a tratti rasposa dei frutti e la deforme sfericità che riempie il cavo della mano. C‘è una gioia intensa negli umili frutti di una natura conosciuta e quotidiana: ci confortano le pere “mostruose” (di gozzaniana memoria) accanto alla toma matura che nella sua rugosità sprigiona le essenze della terra. Ma c’è anche la malinconia del percorso al suo apice, perché nelle sensazioni gustative e olfattive si consumerà e si estinguerà il piacere. Così in tutti i quadri di Patrizia Rota si coglie, nella luce che inonda i frutti, una nudità che rivela la fragilità di ciò che è materiale. E allora la ricerca si rinnova: l’uva bianca, che nell’umile cesto di legno imprigiona la luce negli acini turgidi (“Sulla mensola”) appare su uno sfondo caldo ma accentuato di ombre e, poi, si trasferisce sul tovagliolo drappeggiato (“L’uva di Ester”) a divenire rappresentazione simbolica, come le nespole sul drappo di seta e, ancora, l’uva e la zucca sulla colonna parzialmente addobbata nell’ “Interno neoclassico”. Il cuore increspato delle nespole, rivestite ancora delle foglie dipinte dall’autunno, ci richiama alla natura, ma il drappo le pone oltre la stagione e le consegna alla fruizione immateriale dell’arte. Così la rappresentazione pittorica intende superare le scansioni dell’anno e del tempo, percorso inevitabile verso la morte. E tale intento si svela nei “Germogli di primavera”: sullo sfondo scuro (blu, però, non nero) le cipolle, già trasformate e consunte nella loro essenza materiale, rigenerano l’esistenza nei germogli verdi, brillanti, vividi, a garantire la continuità della vita. Si crea, così, nell’alternanza della vita e della morte un’esistenza percepita al di là di questo limite, una vita che solo l’alchimia dell’arte può realizzare. La zucca autunnale, mostruosa e vitale nel suo profilo, mostra i semi del suo cuore spaccato accanto ai pomodori turgidi e scivolosi di luce. Sul drappo le stagioni si sono unite e la zucca, umile e cara alle favole dell’infanzia, rugosa e ammaccata nel taglio ma calda nel colore, rinnova la nostra inesauribile aspirazione a catturare il tempo e a unire in un indefinito presente le stagioni che fuggono, le stagioni della nostra vita. Come si può osservare anche nelle altre tele, c’è ancora ricerca metafisica nella pittura di Patrizia Rota: ora si cela nella bellezza inquietante dei frutti e i ritmi dell’anno e del tempo sono ricondotti dalla sua ispirazione a una stagione ultratemporale, a una unica stagione del cuore. Forse la Pittrice è ben rappresentata dalla peonia nella coppa di cristallo: trae la vita dall’acqua e la emana nel colore che spicca sullo sfondo scuro, esorcizzato dal luminosissimo piano d’appoggio; nella rappresentazione sobria ed essenziale si crea l’armonia tra l’oscurità e la luce, si coglie la segreta armonia dell’esistenza.
Settembre 2007 Gabriella Cacciabue

L'imprevedibile attimo dell'emozione, così è l'opera d'arte, e per questa ragione all'artista è richiesta la sua disponibilità a dare una risposta ai dubbi intimi dell'uomo. Il traguardo della gioia di vivere resta impegnativo ed è irraggiungibile se l'uomo non conosce il significato delle proprie inquietudini e dei propri dubbi. Qui, la voce dell'artista si fa d'infinito, proprio perché la sua voce è voce universale d'impegno morale, di risposta e di soluzione. Il percorso nell'interiorità dell'artista tramandato nei secoli dai “Suoni” di Kandinskij. E' con la consapevolezza di poter avvicinare l'uomo al principio basilare della “gioia di vivere” che Patrizia Rota sa cogliere ogni valore psicologico del colore ed è per questo che la sua tavolozza è ricca di luminosità, di calde tonalità e di gioco equilibrato nei contrasti di luci e di ombre. Ciò che si coglie nelle sue opere è il costante, inflessibile controllo della qualità estetica e, dunque, in esse si fondono classicismo carraccesco e realismo caravaggesco, fusione che avvicina l'artista per valori morali, riflessività, rigorosità ed equilibrio di contrasti a Guido Reni e per virtuosismo, capacità di concentrazione, enigmatiche sfumature e varietà di toni a Georges de La Tour e a Zurbaran. Ma Patrizia Rota sfugge ai cliché canonici delle epoche e delle correnti; la sua arte non resta immobile: ieri, il paesaggio; oggi, la natura morta; domani… chissà! La nostra artista non ha confini nel trattare il colore. I suoi effetti di luce e di materia, il cromatismo armonico, l'eloquenza delle sue pennellate, fanno di lei un'artista che va al di fuori di ogni realismo, sia emiliano o lombardo o veneziano o genovese, e che non è di appartenenza a nessuna scuola, né spagnola né olandese né italiana. Lei è pittrice che non teme confronti, proprio per la sua austera gamma cromatica, la sua luce intensa, la sua densità di valori estetici e psicologici. Patrizia Rota è artista che sfugge a ogni tentativo d'indagine, perché possiede la capacità di saper cogliere nelle sue nature morte con l'uso di un suo esclusivo cromatismo antitetico il fervore della vita un attimo prima del suo disfacimento. La voce di questa nostra artista è la voce del realismo silenzioso e dell'equilibrata armonicità delle forme. Ed è la voce dalle misteriose tonalità dell'infinito. Infinito “Se mai ti ritrovassi/su questa terra/dai mille colori,/davanti all'albero grigio/avvolto nell'urlo accorato/delle rocce innevate,/ascolta in silenzio/la voce infinita degli abissi,/come preghiera azzurra/di perdono”. Sono versi di una mia poesia di anni fa, ed ora mi è caro accomunare alle opere di Patrizia Rota ciò che l'albero grigio e spoglio di allora mi ha sussurrato in un chiaro giorno d'inverno. Questi versi e le opere della pittrice sono l'incontro di anime che cercano l'infinito nel silenzio, e non dimenticano; non dimenticano il percorso difficile dell'uomo per arrivare alla meta della gioia di vivere. Patrizia Rota raggiunge e fa raggiungere questa meta con la luce rarefatta dei suoi colori, sfumati nelle tonalità segrete dell'infinito.
Agosto 2007 Enzo Schiavi

L’affettuosa familiarità degli oggetti apparentemente isolati nello spazio, sono l’esercizio tecnico che caratterizza l’interesse di Patrizia Rota per il tema della natura morta. Guardando con occhio più attento, esiste una poetica nell’esercizio tecnico, ovvero una valorizzazione della competenza raggiunta. I modelli selezionati dall’artista, non contengono nessuna strategia di persuasione sensoriale; l’apparente rifacimento della realtà può essere individuato come “imitazione”, mantenendo la propria autonomia testuale: l’artista vuole mantenere la distanza tra realtà e rappresentazione, fors’anche per sancire l’abilità interpretativa. Presenze naturalistiche, angoli domestici, mensole con oggetti diversi, costituiscono momenti di silenzio contemplativo, uno spirito fuori della realtà. I soggetti appartengono al quotidiano del tutto privo d’enfasi narrativa, Patrizia Rota dipinge senza troppi artifici, non mente, non simula, esprime la regola introiettandola naturalmente: la pennellata è compatta, lo spazio prospettico è ridotto, viene eliminata una qualsiasi azione; fonti luminose incerte o plurime, riflessi molteplici, creano interni dal cromatismo luminoso e talvolta acceso. Tra le pareti silenziose dello studio si compie il dialogo dell’artista tra oggetti e presenze naturali, istanti della vita, cercando una consistenza nell’imprendibile e incomunicabile esistenza umana
Aprile 2006 Alberto Boldini

Interrogare la luce, valutarne l’intensità misurandone le effrazioni in relazione all’incidenza atmosferica in un campo visivo raccolto, in cui l’aria pare prosciugarsi, negando moti e vibrazioni, per accogliere e rivelare nitide presenze vegetali: è la sfida pittorica quotidiana di Patrizia Rota. Tuttavia è anche la difficile scelta di affrontare il vero della realtà, senza diaframmi, nel rigore di un’indagine percettiva vigile, coltivata durante la frequentazione accademica torinese presso l’Albertina nell’ambito di quell’inconfondibile linguaggio sobrio ed essenziale che, da Boglione a Calandri a Saroni a Soffiantino, permea le generazioni artistiche del Secondo Novecento, pur mai dimentiche delle quinte raggelate di Carrà e della rarefatta sospensione casoratiana. Lungo il decennio Novanta nuove problematiche affiorano nella ricerca pittorica di Patrizia Rota, incrinando certezze compositive ormai consolidate nel motivo dello scorcio naturalistico rielaborato in fitte sequenze di tersa chiarità tonale; emozione lirica e tessitura cromatica si compenetrano, preludendo ad una graduale interiorizzazione degli spazi boschivi rigogliosi e radure arboree rigeneranti, quasi soste consolatrici all’errante esistenza contemporanea. Quell’urgenza di fisicità atmosferica così tersa e catartica - non estranea alla tradizione novecentista di Eso Peluzzi, Cino Bozzetti e quanto mai perseguita dagli ultimi divisionisti alessandrini e rielaborata nelle stagioni chiariste lombarde tra le due guerre – diviene complice nella recente ricerca di Patrizia Rota, conducendola a riappropriarsi del reale quotidiano, a ritagliarsi dimensioni circoscritte ( lo studio, il piano d’appoggio, la quinta di fondo) su cui costruire il proprio colloquio con oggetti domestici, ortaggi, frutta stagionali. Il ritrovare presenze minime, che sappiano attendere nella penombra della casa ed interroghino sui pensieri di giorni laboriosi, diviene un’occasione di verifica interiore, di sollecitazione ad assaporare, senza fretta, nuove linfe, misurandone le pennellate alla luce, distillandone sulla tela i succhi più preziosi. Si avvia così un cammino creativo inedito, governato da calibrature spaziali e serrate volumetrie, ma sorretto da salde conquiste tecniche che suggeriscono nuovi approdi espressivi.
Settembre 2004 Marida Faussone

Ecco finalmente una pittrice autentica, lontana dal calcolo come da ogni assopimento per troppo amore per le emozioni. Patrizia Rota sa misurare e contenere lo spazio della pittura in un verace sentire senza per altro avvertirvi alcuna costrizione. Sarà dunque, questa, una pittura in cui domina il colore ed un colore intensamente voluto secondo un'osservazione naturale compiuta e percepita in uno struggente sentimento del tempo. Il tempo infatti è signore e padrone in queste composizioni solo apparentemente improntate ad un disattento rifacimento del naturale. Un sentimento del tempo, dicevo, inteso quale tentativo generoso di fermare sulla tela un'emozione rapinosa come un giorno d'autunno. Compariranno frutti di stagione, campi in colore, fronde rigogliose ricostruite in un amalgama cromatico che canta il dominio della sensazione su ogni rigore razionale. Eppure come ogni sensazione importante, anche il fuggire del tempo è dall'autrice lungamente meditato e di sovente riproposto secondo schemi canonici che possiamo qui riassumere. Quasi fosse un telo o un vetro colorato o lenti poste per acuire la vista, un tonalismo soppesato quanto permette l'emozione avvolge nell'unico lembo della tela l'intero compositivo. Si avranno, dunque, richiami continui tra i soggetti-oggetti dei quadro quasi la natura avesse un volto atteggiato ad un'unica espressione. E ancora distingueremo i dipinti in due o tre piani, secondo l'occasione. Un primo inteso quale luogo dell'osservatore oppure quale oggetto precipuo della composizione in cui ancora l'osservatore può immedesimarsi; un secondo costituito da un contro oggetto, quasi un pre-sfondo oltre il quale si staglia altissimo il terzo e ultimo piano: il cielo o la parete in efficace concordanza con quel primo popolato di frutti consumando, di noi stessi. E non abbiamo suddiviso così il quadro per amore di qualche spiegazione geometrizzante, ma per meglio illustrare quella interpretazione temporale che in principio giusticavamo come asserto. Se nel primo piano, l'autrice immagina di vedere noi e se stessa, uomini, finire nel fruire delle cose, più oltre un ampio cielo o un fondo ancora indistinto eppure come nebuloso manifesta una fissità intensa. Nella natura morta compaiono frutti di stagione, ma su di un tavolo e in una stanza che non si apriva alla luce da anni. Così il cielo pare, nel giorno che passa, non avere mai fine. E’ una pittura di tocco, questa, rapita nella rapidità del gesto ad un vivere Intenso le cose ed un vivere drammaticamente se stessi. Questa dunque è la magia e la particolare intuizione di Patrizia Rota, autrice inventiva, ma vicina ad una poesia del farsi più che del fare, ad una poesia cioè che tende a valutare le cose non per rappresentarle ma per sentirle. E averle rappresentate vuoi dire soltanto sentirle ancora. E soprattutto sentirne l'emozione.
ANGELO PANERAI DA QUADRI & SCULTURE febbraio-marzo 1996